Disciplina dell’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive. DLg 196

DECRETO LEGISLATIVO 23 maggio 2000, n. 196

“Disciplina dell’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell’articolo 47, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n.144

G.U. 18 LUGLIO 2000, N. 166

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Differenziali retributivi di genere: il “caso” della Pubblica Amministrazione

Maria Francesca Comerci

Differenziali retributivi di genere: il “caso” della Pubblica Amministrazione

Perché titolare Il caso della pubblica amministrazione, una relazione sui “Differenziali retributivi di genere” nei servizi pubblici? Non certo perché siano maggiori rispetto agli altri settori, anzi è piuttosto vero il contrario, ma piuttosto perché ci sono ancora.

E, “formalmente” almeno, non dovrebbero esserci. Nella pubblica amministrazione, dove la “femminilizzazione” (almeno per alcuni settori e professionalità), è un dato consolidato, e “accessi” e “percorsi di carriera” sono fissati da norme e automatismi che dovrebbero ridurre al minimo, o addirittura eliminare, tutte le discriminazioni (e quindi anche quelle di genere), dalle diverse ricerche, anche se parziali, così come dall’evidenza empirica, emerge invece che a parità di titolo di studio e/o di posizione professionali, differenze retributive tra donne e uomini continuano a resistere nei diversi comparti del pubblico impiego, anche se con pesi differenti.

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Contratti decentrati, maneggiare con cura

di Andrea Ricci, 17/11/2011

Nel dibattito politico si fa un gran parlare dell’esigenza di riformare il sistema delle relazioni industriali, per dare maggiore spazio alla contrattazione integrativa e garantire alle imprese quella flessibilità operativa che, secondo alcuni, sarebbe limitata dal contratto collettivo nazionale. Non c’è bisogno di ricordare le vicende di Pomigliano e Mirafiori per capire di cosa stiamo parlando.

D’altra parte, come spesso accade nel nostro paese, la discussione riflette interessi particolari piuttosto che un’attenta analisi dei fatti. E la realtà del mercato del lavoro italiano è troppo complessa per essere affrontata da semplici ricette di deregolamentazione contrattuale.

Prediamo il caso delle disuguaglianze di genere. Ebbene, la diffusione della contrattazione integrativa rischia concretamente di rendere ancora più acuta le differenza tra il salario percepito dagli uomini e quello delle donne, a meno che la sua introduzione non sia accompagnata da meccanismi o da accordi in grado di garantire alle lavoratrici pari opportunità di accesso ai piani di formazione aziendale. Ed il ruolo del sindacato, in tal senso, può essere determinante.

L’analisi empirica che ci ha portato a questa conclusione è stata condotta su un campione rappresentativo di oltre 3.300 imprese con almeno 10 dipendenti, operanti nell’industria e nei servizi nel corso del periodo 2005-2007. Il campione è stato ottenuto integrando informazioni relative alle caratteristiche degli occupati e alla natura delle relazioni industriali presenti nella Rilevazione su Imprese e Lavoratori (RIL) dell’ISFOL e le informazioni sui bilanci certificati delle medesime imprese provenienti dall’archivio AIDA.

Sulla base di questo campione emerge che nel biennio 2005-2007 una media di poco superiore al 10% delle imprese adotta uno schema di retribuzione integrativa per i propri dipendenti, inoltre, in tutto il periodo considerato le imprese con contratto integrativo sui salari son in gran parte sindacalizzate (86%) e propense ad organizzare corsi di formazione per i propri dipendenti (64%), oltre ad essere più produttive, più grandi, specializzate nei settori industriali e localizzate prevalentemente nelle regioni del Nord.

Il quadro virtuoso che descrive l’operare della contrattazione integrativa in Italia rivela tuttavia un dato preoccupante. Le imprese con retribuzione integrativa occupano in media una quota di donne sul totale dei dipendenti (25%) significativamente inferiore alla quota di donne presenti nelle imprese senza contrattazione integrativa sui salari (32%).

Si tratta di un aspetto poco conosciuto del nostro mercato del lavoro, di cui è bene chiedersi le ragioni, date le sue implicazioni economiche e sociali. Siamo andati quindi ad analizzare la natura e l’intensità della relazione che lega la probabilità di adottare schemi di retribuzione integrativa aziendale e occupazione femminile, tenendo conto di un insieme di altre caratteristiche produttive, occupazionali e istituzionali delle imprese. I risultati sono in qualche modo sorprendenti. Abbiamo verificato infatti che un incremento di 10 punti percentuali della proporzione di donne occupate riduce la probabilità che le imprese adottino uno schema integrativo sui salari in una misura che varia tra i 2.3 e i 6 punti percentuali, a seconda dei metodi di stima utilizzati. In altre parole l’istituto della contrattazione integrativa che, in teoria, dovrebbe associarsi ad un efficiente funzionamento del mercato del lavoro, in realtà svolge un ruolo nell’alimentare una delle sue più gravi ingiustizie: la persistenza del differenziale salariale di genere.

Tra i diversi fattori che possono incidere sulla relazione negativa tra retribuzione integrativa e pari opportunità di reddito abbiamo poi focalizzato l’attenzione sul ruolo svolto dall’investimento in capitale umano e dal sindacato. Le lavoratrici ricevono meno formazione rispetto ai lavoratori e, di conseguenza, vengono coinvolte meno frequentemente nella distribuzione degli incrementi di produttività che derivano dall’accumulazione di competenze professionali. Inoltre le lavoratrici hanno meno potere contrattuale in azienda rispetto ai colleghi maschi. In particolare, le donne sono meno sindacalizzate degli uomini e ciò incide negativamente sulla loro capacità di rivendicare una redistribuzione più equa dei profitti attraverso la contrattazione integrativa.

Naturalmente ci possono essere anche altre forze in grado di condizionare la relazione tra disuguaglianza di genere e contrattazione integrativa. Tuttavia le scelte di formazione e la presenza del sindacato ci sembrano gli elementi più importanti da considerare. Non solo per la loro rilevanza intrinseca, ma e soprattutto perché gli investimenti in formazione e ruolo del sindacato sono aspetti più direttamente chiamati in causa nel più ampio disegno di riforma delle relazioni industriali di cui si parla nel nostro paese.

In questa prospettiva, l’analisi empirica ha confermato che le donne occupate in aziende che organizzano corsi di formazione per i propri dipendenti sono più frequentemente coinvolte nella contrattazione integrativa rispetto alle lavoratrici che si trovano in imprese non formatrici. Tuttavia l’investimento in formazione di per sé non è sufficiente a colmare la disuguaglianza di genere nell’accesso ai premi salariali. Affinché ciò avvenga è necessario che l’investimento in capitale umano sia in qualche modo veicolato dalla presenza del sindacato.

L’analisi dei dati dimostra infatti che l’occupazione femminile incentiva l’adozione di retribuzione integrativa solo nelle imprese che investono in formazione e che, contestualmente, hanno al loro interno una presenza sindacale. In particolare, nelle imprese formatici e sindacalizzate l’incremento di 10 punti percentuali nella quota di donne occupate genera un incremento della probabilità di adottare schemi di retribuzione integrativa che varia tra il 3.7 e gli 8 punti percentuali (L’intervallo di valore, anche in questo caso, dipende dai metodi di stima utilizzati).

In un certo senso, si può affermare che la presenza del sindacato garantisce, da una parte, un aumento del potere contrattuale delle donne e, dall’altra favorisce, pari opportunità di accesso ai corsi di formazione, stimolando di conseguenza una relazione positiva tra occupazione femminile e retribuzione integrativa.

Va sottolineato, infine, che queste evidenze si riferiscono all’intero sistema produttivo extra-agricolo e dunque possono celare una sostanziale eterogeneità di comportamento tra i diversi settori. In effetti i risultati che sono stati commentati per l’economia nel suo complesso riflettono ciò che avviene nel settore industriale. Nel comparto dei servizi, infatti, le donne non sono penalizzate in modo significativo e, di conseguenza, il ruolo della formazione e del sindacato perde consistenza nel garantire pari opportunità di accesso agli schemi di retribuzione integrativa.

Le argomentazioni svolte finora ci permettono a questo punto di trarre alcune indicazioni di politica economica. In particolare, ci suggeriscono che un progetto di riforma delle relazioni industriali che preveda uno spazio sempre maggiore per la contrattazione integrativa a livello aziendale dovrebbe necessariamente porre le condizioni per incentivare l’investimento in capitale umano dei lavoratori e, al tempo stesso, favorire il consolidarsi di relazioni “cooperative” tra impresa e sindacato nelle scelte di formative. Ignorare la complessità di tali legami in un sistema produttivo e in un mercato del lavoro frammentato come quello italiano rischia di creare più problemi di quanti ne risolva. La questione della disuguaglianza di genere ne è un esempio evidente.

La contrattazione collettiva di genere: fra sessismo e buone pratiche

Elena Cherubini

La contrattazione collettiva di genere: fra sessismo e buone pratiche

Introduzione

1. Il contesto di riferimento: alcuni dati

2. Il ruolo della contrattazione

3. Il sessismo e la falsa neutralità delle regole

4. Le buone pratiche di genere

Conclusioni

Rapporto su la contrattazione collettiva aziendale

Madia D’Onghia

Rapporto su la contrattazione collettiva aziendale. Diffusione e contenuti

Abstract

All’interno del tema più generale della “Produttività, contrattazione, salari, distribuzione del reddito”, si è proceduto alla ricostruzione dei modelli contrattuali con una particolare attenzione al secondo livello di contrattazione, soprattutto per verificarne il suo grado di diffusione, per poi giungere al recente dibattito in tema di riforma della struttura della contrattazione collettiva.

E’ stata così esaminata l’articolazione dei modelli di contrattazione collettiva che, nel tempo, ha subito rilevanti variazioni.

Si è dunque partiti dall’esame degli accordi interconfederali, per poi passare alla contrattazione di categoria e alla c.d. contrattazione articolata, dove, oltre al contratto nazionale di categoria, si prevedono il contratto di settore e il contratto aziendale.

È con il Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione del 23 luglio 1993 che viene definito il modello contrattuale attualmente adottato dalle parti sociali. In particolare, il Protocollo individua nella politica dei redditi lo strumento indispensabile per contenere l’inflazione e i redditi nominali, per difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni.

Ci si è poi soffermati sul dibattito riguardante la necessità di una verifica del sistema contrattuale italiano, a partire dal 1997 quando la Commissione, presieduta da Gino Giugni, fu incaricata di valutare i risultati prodotto dal modello di politica dei redditi e degli assetti contrattuali previsti dall’accordo e di proporre eventuali modifiche.

A questa, sono seguite le discussioni avviate in occasione della pubblicazione del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia (presentato nell’ottobre 2001 dal Ministero del Lavoro) e, con la sottoscrizione, nel 2004, del Memorandum per la crescita e lo sviluppo, siglato da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil.

Tale dibattito riprende vita con la sottoscrizione tra il Governo e le parti sociali del protocollo sul Welfare, avvenuta il 23 luglio del 2007, arricchito dall’intesa raggiunta nel mese di maggio del 2008 tra Cgil, Cisl e Uil. Con tale documento, che costituisce la proposta unitaria delle organizzazioni sindacali e quindi assume una grande rilevanza, il sindacato si pone l’obiettivo di realizzare un accordo unico che definisca un modello contrattuale per tutti i settori pubblici e privati, consenta la tutela e il miglioramento del reddito dei lavoratori.

D’Onghia, Leggi tutto